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Il presente articolo è stato pubblicato
sulla rivista D'Abruzzo nel 2004. Qui è presente la versione
integrale che ci è stata concessa da Cristiano Iurisci.
Dopo la “rovente” estate
2003, termini come effetto serra, buco dell’ozono, arretramento dei
ghiacciai e riscaldamento globale, nel bene o nel male, sono
diventati di uso comune. Questi stessi termini, che hanno un
significato scientifico molto profondo e non del tutto definito, sono
stati spesso usati e abusati tra i mass media, tanto che, dietro ad
ogni disastro ambientale, diventano le uniche cause e gli unici
imputati. Il discorso è in realtà molto più
ampio e complesso.
Si è parlato e
scritto molto, a tale proposito, sul “nostro” Calderone, ovvero
dell’unico ghiacciaio dall’Appennino, incastonato tra le cime più
alte del Gran Sasso. Per alcuni risulta morto, per altri in “coma”,
e per altri ancora, non è così grave come sembra
perché è semplicemente semisepolto dai suoi stessi
detriti. Come si può intuire facilmente la sua “sopravvivenza”
è direttamente proporzionale al clima e quindi al clima del
“nostro” Abruzzo.
Il ghiaccio, infatti, fonde
ad una temperatura fissa e stabilita da leggi fisiche, che è
di zero gradi centigradi; quindi piccole variazioni sopra tale
temperatura provocano il suo scioglimento, al contrario, la sua
conservazione. Il costante ritiro e assottigliamento del Ghiacciaio
del Calderone degli ultimi 25 anni è sotto l’occhio di
tutti, scienziati e non, che ogni anno vi transitano accanto per
raggiungere la cima del Corno Grande. I più anziani
escursionisti ricordano che in passato si doveva attraversare un
tratto di neve anche a fine agosto per raggiungere la vetta, ora
invece, da metà luglio è già tutto una pietraia.
Risulta quindi un “metodo” semplice ed intuitivo per verificare,
anche se in maniera sommaria e in scala locale, la tesi del
riscaldamento globale o sul cambiamento climatico. Cercando di non
incorrere negli errori più comuni quali fare a tutti i costi
sensazionalismo e catastrofismo, qual’è quindi la verità?
Stando ai dati ufficiali, il riscaldamento c’è ed è
anche abbastanza accentuato anche nel “nostro” Abruzzo. Come si
può notare dalla tabella la temperatura media è salita
di circa 0,8°C negli ultimi 100 anni (dati della sola località
di Lanciano).
Il quadro sul futuro è
ancora incerto e, anche se quasi certamente si va verso un ulteriore
riscaldamento, i meccanismi autoregolativi del clima non sono del
tutto chiari e scientificamente dimostrati.
Non ci addentriamo
ulteriormente in materia clima sia per la mia incompetenza, sia per
la difficoltà di tale argomento e soffermiamoci invece sugli
“effetti” che questo provoca a ghiacciai e nevai. Il clima
influenza direttamente i ghiacciai sia sull’accumulo
(precipitazioni nevose) sia sull’ablazione (scioglimento), ma la
“risposta” del ghiacciaio stesso ad un periodo sfavorevole o
favorevole al glacialismo è strettamente dipendente dalla sua
estensione e dalla sua ubicazione.
Un ghiacciaio di piccole
dimensioni (0,5/2,5km2) risentirà quasi immediatamente di tali
variazioni, al contrario, per vederle su uno di medio-grandi
(10-1000km2) dimensioni, si deve aspettare da qualche anno ad alcuni
decenni. Tralasciando l’importanza dell’ubicazione (latitudine),
si capisce perfettamente che studiare i ghiacciai come il Calderone o
i “glacionevati” (tema dell’articolo) della Majella, ci
permettono di avere risultati immediatamente riscontrabili.
Ci aiutano insomma a capire
e comprendere se un anno sia stato più o meno caldo, più
o meno piovoso, aumentando di fatto, l’interesse per il loro studio
e la loro osservazione negli anni.
Oltre al Calderone vi sono
almeno quattro nevai perenni sul Gran Sasso e altrettanti (o più)
sulla Majella. In quest’ultima, la più alta concentrazione
di nevai, è nella zona compresa fra il Mt. Acquaviva (2737mt)
e la Cima della Murelle (2596mt). Sulla val Forcone ve ne troviamo
almeno quattro, di cui il più grande, chiamato dai locali “il
ghiacciaio”, si trova sul primo cambio di pendenza della Val
Forcone, a q.2200mt circa. Per la sua estensione che misura in media
da 90 a 110mt in lunghezza e 25/35mt in larghezza (valori presi a
fine stagione, in genere oltre il 10 settembre) può essere
classificato come un “glacionevato”. Nella stessa valle, poco più
in basso, tra le quote di 2050 e 1950 vi si trovano in genere altri
due o tre piccoli nevai, di solito tra i 30/50mt di lunghezza e i
10/15mt di larghezza; ancora più a valle, dove la questa si
stringe a canyon, vi sono altri “cumuli” nevosi, molto variabili
di anno in anno, tra le quote di 1920 e 1850, incastonati in un
paesaggio davvero suggestivo e dall’aspetto quasi “lunare”.
Questo posto non finisce ancora di sorprendere per le sua peculiarità
climatiche, infatti, in alcuni degli stretti e ripidi canali che
solcano la parete rocciosa del Mt. Acquaviva e che scendono
direttamente sulla val Forcone, vi si trovano altri stretti e lunghi
nevai “sospesi”. Fino a qualche decennio anno fa, alcuni di
questi nevai si collegavano direttamente con quelli più a
valle, formando dei nevai con la caratteristica forma ad “Y”.
Negli ultimi anni (specialmente dopo il 1990), le condizioni
sfavorevoli ne causarono il ritiro e quindi la “rottura” con
quelli a valle; e oggi infatti li ritroviamo 100/150mt più in
quota, mentre quelli che occupavano i più stretti ed esili
canali, sono completamente scomparsi. Questi nevai compresi tra i
2250mt e i 2500mt, hanno una lunghezza variabile 50/100mt (il più
grande sfiora i 200mt!), ma la loro larghezza non supera i 15/20mt!
Dopo le “calienti”
estati 1994 e 1998, alcuni di questi hanno subito rotture anche al
loro interno, tanto che spesso si presentano come tante piccole
placche nevose/ghiaccio separate da brevi tratti di ripida ghiaia,
che comunque non tradiscono la loro originaria forma. Sul versante
nord della Cima delle Murelle troviamo altre piccole placche nevose
perenni; qui spesso non si può parlare di veri e propri nevai,
sia per le ridotte dimensioni sia per l’estrema variabilità
delle stesse tra un anno e l’altro, tanto che alcuni scompaiono in
seguito ad inverni particolarmente poco nevosi o estati molto calde.
Eccezione va fatta per quello ubicato nella valle dell’Inferno che,
per dimensioni e spessore, può essere considerato anch’esso
un glacionevato. Ubicato in questa strettissima ed inforrata valle ad
una quota di circa 1150/1200mt, le sue dimensioni sono di circa 150mt
di lunghezza e i 30/35 di larghezza. Risulta sovente coperto di ogni
genere di detriti, ma mancano foto e dettagli “ufficiali”, data
la sua posizione estremamente difficile da raggiungere. Sempre sul
versante nord delle Cima delle Murelle, lungo la spettacolare valle
di Selvaromana, troviamo gli altri nevai di questo settore. Un paio
sono situati ai piedi dell’enorme parete nord delle Murelle, ad una
quota di 1600mt circa. La loro ridotta dimensione (non superando i
20/30mt per lato) ne compromette spesso la loro “permanenza” a
fine stagione tanto che, nell’ottobre 2002, uno dei due era sparito
e l’altro era ridotto ad un cumulo di ghiaccio di pochi metri
quadri, ma nell’ottobre 2003, entrambi sono riapparsi con le usuali
dimensioni. Più a monte troviamo il nevaio della valle di
Selvaromana, situato ad una quota di 1400mt circa, all’altezza di
un piccolo canyon che proviene dal costone del rifugio Fusco. Anche
questo subisce delle enormi variazioni a causa del tipo di
alimentazione ma, in media, misura dai 35/50mt di lunghezza e 15/20
di larghezza. Cambiando settore ci spostiamo sulla Valle d’Orfento
dove troviamo un piccolo nevaio inforrato nella cosidetta “mucchia
di Caramanico” ad una quota di 1550mt circa. Le sue dimensioni,
molto ridotte negli ultimi anni, vanno dai 40/60mt di lunghezza e i
20 di larghezza. Sulla stessa valle ma più a monte, sulla
conca che separa il M.Rotondo dal M.Focalone, troviamo un altro
nevaio, anche se non presente tutti gli anni. Questo occupa il fondo
della conca stessa e, in annate particolari, può superare i
200mt per lato ma, non essendo ben riparato da pareti rocciose
prospicienti, sparisce completamente dopo periodi particolarmente
sfavorevoli. Mi fermo qui con l’elenco dei nevai e non vado oltre
perché le altre piccole chiazze nevose, se pur numerose in
molti altri angoli della nostra Majella, sono sempre di dimensioni
molto ridotte e non riscontrabili tutti gli anni, quindi di scarsa
importanza.
Cosa distingue un nevaio e
da un glacionevato? Il primo è semplicemente una superficie di
neve più o meno estesa che “resiste” per almeno una
stagione. Per il termine glacionevato invece, si individua quel
nevaio, di più estese dimensioni, che permane per più
anni consecutivi e che abbia una densità più alta,
quasi tipica del ghiacciaio, in genere sugli 800gr/dm3. Il
glacionevato è in pratica un quasi ghiacciaio, solo che manca
delle sue tipiche morfologie come le fratture superficiali e lo
scorrimento verso valle.
Dai libri di scuola
ricordiamo che il limite delle nevi perenni alle nostre latitudini si
aggira oltre i 3000mt, dunque com’è possibile che ci siano
tanti nevai sulle nostre montagne? Osservando il grafico accanto si
può capire come sono importanti due fattori per stabilire il
parametro del limite delle nevi: precipitazioni annue e temperature
estive. Per la Majella, le precipitazioni stimate sul Mt. Amaro (la
cima), si aggirano sui 2200mm annui, mentre le temperatura del mese
di luglio ridotte al livello del mare, sono di 25,3°C. Con questi
valori il limite si aggirerebbe sui 3090mt e, solo nelle annate più
piovose e contemporaneamente più fredde, il limite scenderebbe
fino ai 2800mt. Rari sarebbero quindi gli anni favorevoli alla
formazione o alla conservazione dei nevai; la risposta alla nostra
domanda ci viene dal tipo di alimentazione che queste superfici
nevose hanno. Oltre alle precipitazioni normali (dal cielo) bisogna
aggiungere quelle dovute al trasporto eolico o da valanga; in questi
casi le precipitazioni annue, anche se solo localmente, possono
raddoppiare con il trasporto eolico, fino a quadruplicare con quello
valanghivo. Se si considera che tutti i nevai della Majella sono
compresi tra i 1200mt e i 2500mt di quota, cioè
abbondantemente sotto il limite delle nevi perenni, molto
difficilmente questi si potranno trasformare in ghiacciaio! Basta
spostarci pochi metri oltre queste locali e poco estese superfici, e
siamo “fuori” possibilità. Delle tre tipologie di accumulo
nevoso, il trasporto eolico è quello predominante nei nevai
della Val Forcone, mentre l’alimentazione da valanga è
quello prevalente nelle valli di Selvaromana, dell’Inferno, e
dell’Orfento; scarsi e poco significativi quelli con il tipo misto
(valanghe più eolico). Uno dei fattori più importanti
nella “conservazione” della neve è il suo peso specifico.
Di solito più questo valore è vicino a quello del
ghiaccio da ghiacciaio (oltre gli 850gr/dm3), più il suo
scioglimento risulta lento, poiché poco permeabile ai raggi
solari, alla pioggia e al vento.
La sequenza di
“trasformazione” della neve da neve fresca in neve vecchia, in
“firn”(neve da nevaio), e infine in ghiaccio, può essere
più o meno lunga, e durare da qualche mese a molti anni. Si
può dedurre come più velocemente avviene la
trasformazione, più facilmente la neve può
“sopravvivere” alle calure estive. Per i nevai ad accumulo eolico
il processo può risultare più lento di quello ad
accumulo valanghivo. Spesso, infatti, enormi accumuli eolici in quota
possono letteralmente sparire in appena un mese di caldo estivo se la
neve che lo compone non è “propriamente” trasformata.
Questo probabilmente a causa
di un numero limitato dei cicli di gelo/disgelo (che aiutano ad
eliminare le bolle di aria contenute nelle neve) che avvengono alle
“alte” quote appenniniche dove in pochi giorni si passa
dall’inverno all’estate con ablazione (scioglimento) anche
notturna. Nella neve di valanga invece, è già il forte
impatto con il suolo che provoca parte della trasformazione,
eliminando molta “aria” interstiziale fra i singoli fiocchi di
neve. A ciò aggiungiamo i continui cicli di gelo-disgelo
possibili (date le medio-basse quote) anche in inverno, che
permettono di raggiungere una densità tipica del firn molto
prima dell'estate, e cioè quando lo scioglimento diviene
quotidiano e continuo. Con questi osservazioni è possibile
spiegare come, nonostante la tantissima neve caduta nell’inverno
2003, i nevai in quota (eolici) abbiano “sofferto” tantissimo la
precoce, lunga e calda estate, risultando in forte regresso; invece e
stazionari o addirittura in aumento sono risultati quelli di tipo
valanghivo.
Cristiano Iurisci
temperatura media 1903-1941
temperature medie annue 1903-2003
precipitazioni annue medie
dati meteo locali e temperature d'alta quota (doppio click per ingrandire)